Storia della gubana
Indice
1. INTRODUZIONE
1.1. Considerazioni a proposito dell’informazione esistente sulla gubana e sulle sue origini
1.2. Breve esame degli errori più pesanti che devono essere corretti
1.3. Considerazioni ed informazioni da controproporre agli errori su indicati
2. LA GUBANA: PATRIA D’ORIGINE, NOME E CARATTERISTICHE
2.1. La patria
3. LA GUBANA NELLA SECONDA METÀ DEL NOSTRO SECOLO
3.1. La gubana, dolce di famiglia fino alla prima metà del Novecento
1. INTRODUZIONE
1.1. Considerazioni a proposito dell’informazione esistente sulla gubana e sulle sue origini
L’informazione popolare sulla Gubana - dolce tipico delle Valli del Natisone -, secondo quanto è possibile apprendere dalla gente, se si parla per caso con qualcuno della zona nella quale questo antico dolce è familiare un po’ a tutti, o anche con abitanti della finitima zona isontina, è curiosamente meno lontana dal vero di quanto non sia quella che si ricava dai libri - non mi affretterei a chiamarli studi, e vedremo perchè - finora stampati, nei quali oggetti del discorso sono la gubana e svariati altri dolci che ciascuno si è ingegnato di assimilare o paragonare ad essa.
Infatti, chiedendo alla gente, il dato che generalmente emerge, se si ascolta chi abita nel cividalese, è che per tradizione questo dolce si confeziona in modo diverso a Cividale, rispetto alle Valli del Natisone, perchè la gubana della città longobarda è fatta con la pasta sfoglia, mentre quella delle Valli con pasta lievitata; se se ne parla nell’isontino, invece, ci viene detto subito che la gubana del Cividalese è differente da quella che si fa a Gorizia (e la gente non si preoccupa del nome, perchè ormai esso è universalmente noto: osserva solo che si tratta di un altro tipo di dolciume, o tutt’ al più, semplicisticamente, dice che a Gorizia ha un altro nome, senza andar a pensarci tanto su).
E’ dunque evidente che nella coscienza popolare ciò che prevale, nell’approssimazione dell’informazione ed anche del linguaggio che è tipica del nostro tempo, è il dato generico che induce a catalogare secondo un unico concetto più cose affini, ma non uguali, senza alcuna preoccupazione di tener conto della loro individualità, anche perchè ormai le conoscenze delle cose sono molto diffuse e si tende a catalogare per approssimazione più oggetti secondo una definizione globale che serve in pratica da punto di riferimento e d’intesa, senza alcuna pretesa di stabilire con questo indicazioni di massima.
Questa imprecisione, questa indeterminatezza della lingua dei popoli più evoluti, è una caratteristica messa a fuoco dagli studiosi del linguaggio, i quali hanno peraltro notato come, invece, i linguaggi dei popoli più antichi, nella loro realtà originaria - quella primitiva, se così vogliamo dire, per dare loro una qualifica che per lo storico è positiva - siano molto più ricchi e precisi nel lessico e più complessi nella struttura morfologica e sintattica: per farne un esempio facilmente comprensibile, i generi nelle lingue più conservative avevano strutture che le lingue attuali hanno in buona parte perduto; così i numeri: del duale non esistono che relitti per così dire archeologici nell’italiano, rispetto alla madre lingua latina; per non parlare poi dei casi, che ormai restano soltanto, nelle lingue indoeuropee, in rumeno e nelle lingue germaniche. E la struttura grammaticale è ridotta al minimo in lingue come il giapponese o il cinese, che hanno ridotto tutto in ideogrammi: qualcosa di simile a quanto è accaduto, in altra forma, nella lingua inglese (e lingue del nuovo mondo da essa derivate).
Di questa genericità del proprio linguaggio nessuno dei parlanti che vivono nella civiltà di oggi ha coscienza, perché ognuno di noi vive nel presente; ma se un uomo del medioevo potesse inserirsi in mezzo a noi, ne resterebbe sconcertato e disorientato: e non riuscirebbe a comunicare che con molta fatica.
Ma fra i linguaggi attualmente vivi esiste ancora un’infinita varietà di realtà dialettali, usate ancora in certi casi solo oralmente da popoli che li hanno ereditati per tradizione familiare, nelle quali si conservano testimonianze delle antiche qualità di precisione e delle strutture più complesse che in passato erano vitali in ciascuna famiglia linguistica. E’ così che proprio nei linguaggi locali, nella individuazione semantica a volte così particolare del loro lessico, possiamo trovare a volte la spiegazione, e la documentazione, che ci permette di capire l’origine di una cosa, che nel linguaggio d’uso più generale, quello che si usa anche nella scrittura e pertanto nei libri, ormai spesso non si può più nemmeno cercare, perché questa precisione è andata perduta causa quel processo di uniformazione che porta le lingue dallo specifico al generico, fatalmente, con l’uso e con l’evoluzione e la diffusione su vasta area del mezzo umano principale di comunicazione, che è appunto il linguaggio.
Perciò non dobbiamo meravigliarci se finora coloro che hanno affrontato - e tutti bene o male lo hanno voluto fare - il problema dell’origine della gubana, quando hanno scritto libri o saggi nei quali ne hanno trattato, monograficamente o nell’ambito di tematiche dove essa era chiamata in causa, sono caduti nel medesimo errore, facendo di ogni erba un fascio circa il nome ed anche circa le caratteristiche e l’origine del nostro dolce, visto che hanno argomentato in modo approssimativo, forse anche perché - ma non è causa loro - sono quasi tutti dei dilettanti: e l’ignoranza (certo, sempre relativa) porta a dare giudizi gratuiti, con la più tranquilla sicurezza, ma purtroppo anche con la più beata incoscienza.
Ciò è purtroppo quanto è accaduto a questi autori, dei quali saremo dunque costretti a demolire le opinioni per lo più costruite senza alcuna base scientifica, anzi con un’approssimazione che a volte sconcerta: eppure si tratta di persone che, magari a proposito delle ricette di dolci che hanno richiamato loro l’idea della gubana, mostrano una discreta diligenza nella ricerca minuta dei dati (anche se per lo più sono piuttosto imprecisi nei riferimenti bibliografici): e d’altronde non vanno oltre a questo, che non basta a costruire giudizi storicamente seri.
La carenza di correttezza scientifica non è loro imputabile, però, perché si tratta nella generalità dei casi di persone digiune della preparazione specifica che serve per tale tipo d’indagine e che pertanto hanno sbagliato per ingenuità scientifica, e quindi sono incolpevoli per aver presentato opinioni e fatto affermazioni che, esaminate attentamente, si rivelano gratuite e prive di consistenza storica.
La ragione principale di questa loro superficialità si può spiegare fondamentalmente con il fatto che essi erano ben lontani dal seguire criteri adeguati nel tentativo di spiegare la storia ed il nome del nostro dolce: eppure un indirizzo di ricerca dei più nuovi nel nostro secolo ha da tempo insegnato il metodo, usato in seguito da un folto gruppo di studiosi di onomasiologia e di etnografia, che ha illuminato il campo degli studi etnografici, mostrando come essi non possano, nell’indagine sul patrimonio culturale locale, che si fonda fra l’altro sulle varietà dialettali del linguaggio, fondare la loro ricerca soltanto su un’indagine esclusivamente “filologica” sulle parole, perché in tale analisi non si può prescindere dal contesto storico e geografico al quale le parole appartengono : studiando dunque le cose in astratto si rischia di andare inevitabilmente fuori strada.
Il metodo cui alludo è noto con l’etichetta di “Wörter un Sachen” (Parole e cose), e fu ideato da Schuchardt e Meringer, e fu diffuso principalmente dall’omonima rivista, fondata da R.Meringer e W.Meyer-Lübke, che iniziò a uscire ad Heidelberg nel 1909 e continuò fino al 1944. Questo metodo di ricerca - lo spiego con le parole di un grande maestro, Carlo Tagliavini, che sono molto chiare - “propugna lo studio accoppiato della storia degli oggetti insieme alla storia delle parole e dichiara pericolosa e vuota di senso l’indagine etimologica affidata al puro materiale linguistico.” (1)
Seguendo questo insegnamento, è stata rivoluzionata anche l’indagine etnografica, perché gli studiosi hanno capito, e in pratica constatato studiando secondo questo criterio, che solo studiando il tesoro lessicale di una comunità in relazione con la sua vita e le sue tradizioni, e quindi studiando le parole e le cose in concreto, in stretta relazione con il loro spazio geografico e storico (cioè il passato di quel territorio, quindi della sua popolazione, che sono determinanti essenziali di una realtà etnica), si può giungere ad esiti sicuri: cioè anche si può evitare di prendere dei terribili abbagli, cosa che succede quando si lavora per comparazioni astratte, cercando affinità con linguaggi lontani e prendendo spunti su libri lontani dalla realtà storica alla quale appartiene una determinata parola, che corrisponde di norma a una determinata cosa e solo a quella, non confondibile con altre anche simili, perché la sua storia è unica ed è legata ad un determinato territorio soltanto.
Ecco, questo criterio, così semplice e preciso, non è passato nemmeno per l’anticamera del cervello agli autori che non ho ancora nominato e dei quali sarò costretta a smantellare i giudizi, perché questi risultano, per la loro astrattezza, tutti privi di valenza storica, e pertanto anche di validità scientifica. Cioè sono sbagliati.
L’errore di fondo infatti dipende dal fatto che, in generale, essi hanno scritto per approssimazione, istituendo somiglianze tra dolci che sono nati e sono rimasti in uso in epoche e zone diverse da quello che è per così dire l’habitat della gubana, che è quello delle “ville” che per tutta l’epoca veneta fecero parte delle “Contrade di
Antro e di Merso” (area che definiremo fra poco). E così c’è chi ha creduto di poter istituire parentele perfino con un dolce un po’ simile che confezionavano i romani, citato da Apicio (ma cosa c’entra con la tradizione culturale delle Valli, dove fu certo sconosciuto questo autore?!....) oppure chi ha argomentato di un dolce simile fatto in Boemia, dal quale potrebbero derivare sia la gubana che il presnitz di Gorizia, i quali ultimi hanno, fra l’altro, già per conto proprio una storia del tutto differente, e sono differenti fra loro.
Come si vede, sono tutte fantasticherie.
L’unico discorso serio lo abbiamo trovato in un piccolo scritto di un folclorista friulano molto valido, Gaetano Perusini, il quale, in un suo scritterello che tratta di usi pasquali, scrive: “Altri pani dolci, nonché dolci veri e propri, si fanno in Friuli per Pasqua, ma il loro uso non è limitato a questa festività”, e aggiunge: “A Cividale e a Gorizia c’è la gubana di pasta sfoglia con ripieno; nei paesi allogeni, di lingua slovena, della Val Natisone troviamo la gubana di pasta lievitata.”(2). Lo studioso friulano non entra nel merito del nome, ed usa come termine generale di riferimento la voce gubana, che da molto tempo è ormai diventata una parola di uso generico-generale, ma si guarda bene dallo stabilire l’origine del termine (d’altronde, egli non era un glottologo), a differenza di quanto hanno fatto gli autori dei quali ho contestato prima le più grossolane affermazioni gratuite: ma il dato di fatto che Perusini sottolinea è importante, perché indica chiaramente che il dolce diffuso dal Cividalese all’Isontino non è un solo dolce, ma che si tratta di almeno due tipi diversi di dolce; importante poi è che lo studioso lo indichi fra i cibi che sono in correlazione coi “pani di Pasqua”, perché infatti risulta che la gubana sia, nel territorio dove è nata, proprio un derivato del pane, come vedremo studiandone la storia.
Ma Perusini ha scritto questo in un breve saggio e non ha approfondito l’indagine più che tanto; sorprende invece che nulla di più riesca a dirci, ben venticinque anni dopo, in una sua corposa opera sulle tradizioni popolari friulane, la studiosa Andreina Nicoloso Ciceri, che probabilmente riassumendo quanto scritto da Perusini se la sbriga in proposito semplicisticamente così, anche lei riferendosi solo alla Pasqua: “Nel goriziano usavano gubane (diverse da quelle del Natisone).” (3).
Invece la gubana era anche, ed innanzitutto, un dolce natalizio: e la gente racconta che di solito le gubane fatte per Natale duravano fresche fino a Pasqua.
1.2. Breve esame degli errori più pesanti che devono essere corretti
Esaminiamo ora brevemente, un po’ più da vicino, gli errori di cui ho fatto cenno sopra.
Ho osservato che nei vari libri dove si tratta del nostro dolce c’è generalmente molta confusione sia nell’attribuzione del nome sia nei riferimenti all’habitat dell’antico dolce, fatto spiegabile anche per la semplice ragione che gli autori nei riferimenti bibliografici e documentari che nelle relative indicazioni di tipo storico sono andati un po’ sull’approssimativo, esibendo spesso affermazioni che non sono in realtà surrogate dai riferimenti storici con i quali le hanno supportate, per l’imprecisione dei confronti.
Così per esempio Lella Au Fiore, dopo aver intitolato un suo fortunato libro La gubana goriziana (4) scrive: “La gubana, detta anche presnitz” (p.14) e insiste nella confusione, sia pure dopo aver ammesso che il nome potrebbe essere di origine slovena, per affermare che però il dolce non è sloveno, assolutamente; in ogni modo, secondo lei presnitz è ‘sinonimo” di gubana e potrebbe derivare” dal nome della cittadina boema di Pressnitz, ora Prisenice” (p.14)
Non credo servano commenti a mostrare l’ingenuità della spiegazione di “presnitz” come sinonimo di gubana; altrettanto evidente è l’approssimazione e addirittura l’incongruenza di tutto il discorso, fatto peraltro di supposizioni abbastanza gratuite: è un esempio di quell’astratta maniera “filologica” contro la quale il metodo “Worter un Sachen “ ha messo in guardia gli studiosi.
Non molto più chiaro il discorso di Giuseppina Perusini Antonini, che (in Mangiare e bere friulano, altro libro di notevole diffusione, uscito la prima volta nel 1962) (5), mettendo il nostro prodotto fra i dolci pasquali, cita uno scrittore romano, Apicio, il quale descrive un tipo di dolce simile secondo lei alla gubana e vorrebbe vedere in quel dolce un antenato del dolce delle Valli; e poco dopo esprime il suo consenso per quanto afferma uno studioso triestino, Lorenzetti, il quale sostiene che “anche a Gorizia e altrove la sostanza” di questo dolce è “piuttosto nostrana, ed il nome “- secondo lui quello di gubana - “...piuttosto straniero”.
E’ evidente che le due studiose di cucina hanno sbagliato perché non hanno nemmeno sospettato che possa esserci un rapporto fra parola e cosa - e storia anche geografica della cosa - e che pertanto a nome diverso possa corrispondere una cosa diversa perché ha avuto anche una storia diversa; e che dunque se diversi erano l’habitat ed il nome non si potevano considerare i due tipi di dolce come un unico dolce con nomi diversi. Curioso poi che tutti tre gli autori che ho nominato pretendano che il dolce sia “nostrano”, cioè - credo di capire - italiano (?!), anche se il nome in qualche modo sembra loro “straniero”: naturalmente, non portano uno straccio valido di prova delle loro illazioni, che risultano affatto gratuite.
1.3. Considerazioni ed informazioni da controproporre agli errori su indicati
Il primo giudizio che non sta in piedi e che è stato dato da taluni autori è che il nostro dolce dovrebbe, o potrebbe avere un nome straniero, o forse slavo, ma non essere un dolce slavo. E perché? Viene il sospetto che questo giudizio sia così tirato per i capelli perché viziato forse anche da pregiudizi di ordine ideologico.
Per contro fra gli slavi della Benecija sono presenti cognomi che possono collegarsi al nome locale della gubana (ubànca, termine che, se vogliamo adattarlo all’italiano, può essere scritto con qualche approssimazione - come ha fatto il Marinelli - gubànza, perché in italiano non c’è la gutturale aspirata che figura all’inizio del termine dialettale delle Valli che indica la gubana), dal quale pare probabile che essi siano nati, visto che spesso il cognome nasce da un soprannome; troviamo documentati questi cognomi in varie località delle Valli del Natisone da quando esistono registri anagrafici (inizi secolo XVII), ed i sacerdoti che li hanno registrati usano (probabilmente secondo la loro maggiore o minore dimestichezza con il linguaggio locale) i termini gubaniza e gubanza oppure (adattando la voce all’italiano in modo più deciso) gubana: ma è - penso - sempre dello stesso cognome che si tratta. Ed è abbastanza logico un rapporto del cognome con il nome del dolce indigeno delle Valli.
Di un dolce con questo nome non si trova testimonianza in Slovenia, mentre cognomi che potrebbero anche esser messi in relazione con una presunta radice guba, collegabile secondo alcuni studiosi anche al nome della gubana, ce ne sono anche lì: ma la storia di questi cognomi appare sia perché i cognomi sloveni hanno un trattamento un po’ differente da quelli delle Valli, che per il fatto che non esistono - come ci ha assicurato Pavle Merkù (forse, il massimo esperto attuale di lingua e tradizione della Slavia friulana) - dolci chiamati gubana nella ex Jugoslavia; Merù inoltre afferma, in un recente studio, che “Gubana è cognome endemico del Natisone...attestato dal 1601 a Brischis in Comune di Pulfero”, osservando anche che esso “potrebbe, per metonimia, indicare il mestiere di panettiere/pasticcere o comunque persona esperta nel preparare il tipico dolce delle Valli” (6).
E’ sempre Merkù che, riferendo dell’esistenza nell’area della ex Jugoslavia di cognomi, che potrebbero anche collegarsi ad una supposta radice guba, cita i cognomi sloveni Gubàn, Gubànc, Gubànec, Gubìna, per i quali è possibile almeno supporre una storia diversa da quella che traspare nei cognomi delle Valli, dove il riferimento costante è il nome della gubana; e addirittura soltanto nella Benecija troviamo il termine gubana declinato anche per indicare il mestiere di una persona, infatti è ripetutamente documentato l’aggettivo “gubarniza” che significa “colei che fa le gubane”; e ciò rende abbastanza convincente che nella zona del Natisone il cognome sia derivato da un soprannome (come spesso accade per i cognomi) riferito a uno o una che faceva gubane, come ha ipotizzato anche Merkù.
Ancora due parole sul cognome diffuso nelle Valli, documentato nei registri parrocchiali, scritti in un italiano medio, nel quale il sacerdote ha cercato di rendere le voci slave locali scrivendole con una grafia italianizzante, ma usata a sua discrezione; troviamo documentati i cognomi in modo vario (forse a seconda della conoscenza che lo scrivente aveva del linguaggio locale), ma che si distingue comunque nettamente dalle forme slovene: così il parroco Mattia Pirich, che era nativo di Lasiz (Pulfero) e quindi conosceva il dialetto sloveno locale, scrive “Giorgio Gubaniza di Brischis”, mentre il parroco Tolhammer scrive per lo stesso signore “Giorgio Gubanza” ed il parroco Strazzulino, che dal cognome pare essere di lingua friulana, rettifica il cognome dello stesso signore in “Gubana” (v. le note del 1612 - quella dove compare la voce Gubana è del 10 ottobre). E’ presumibile, anche se non si può affermare con assoluta certezza, che si tratti anche negli altri numerosi casi nei quali si riscontra questa variazione di scrittura a proposito di cognomi, che il termine sia sempre quello, ma sia soltanto stato manipolato in modo diverso nel trascriverlo da chi ha steso il documento; e vista la presenza ricorrente dell’accezione “Gubanza” abbiamo motivo di supporre che in questo cognome (ex soprannome) si trovi documentato indirettamente anche il nome stesso del dolce delle Valli, che è abbastanza probabile sia in questa zona all’origine del cognome, nato come tanti altri da un appellativo collegato all’attività che la persona svolgeva, fatto abbastanza frequente che ha dato origine ad altri elementi dell’onomastica personale nati con la stessa tipologia che si trovano qui (come altrove un po’ dovunque), come i cognomi Fabbro e Del Fabbro, Molinaro, e così via.
E il fatto che negli stessi registri della parrocchia di San Pietro si trovi ripetutamente presente l’aggettivo che indica chi fa le gubane (gubarniza, e simili) avvalora ancor più l’ipotesi che qui il cognome sia proprio nato in relazione a soprannomi che si riferivano a chi, da secoli, per tradizione familiare produceva in proprio questo dolce: significativo a proposito è che di solito l’aggettivo si riferisca ad una donna (ed erano le donne che confezionavano per la famiglia questo dolce).
Però, se vogliamo essere pignoli, il termine gubanza riferito esplicitamente e direttamente alla gubana invece da noi è stato trovato nei documenti citati solo agli inizi del secolo, quando il Marinelli cita la gubana anche come gubànza quando riferisce di una sagra che si faceva in settembre sul monte San Martino posto sopra Clodig definendola senza ombra di dubbio come “ghiotta specialità dei paesi sloveni.” (beninteso, della Slavia friulana (7). Sempre Marinelli torna a parlare del nostro dolce riferendo della sagra di S.Pietro (29 giugno), e anche in questo caso annota il termine slavo locale vicino a quello italianizzato: “gubana (gubànza)” ribadendo che essa è una “specialità di questi paesi” (8).
Certo la gente del posto si sarà data un gran da fare per organizzare la sagra, e specialmente le donne di casa avranno dovuto attivarsi al massimo. A proposito ricordiamo infatti che fino almeno alla prima metà di questo secolo la gubana non era un dolce diffuso in commercio, ma era prodotto a livello familiare, e di solito lo faceva chi aveva il forno a legna e preparava il pane; cioè si tenga ben presente che questo dolce deriva dal pane, e alle origini era fatto in modo molto semplice (don Zuanella ci ha detto che inizialmente era fatto solo con pasta di pane e ripieno di castagne); ancora oggi gli anziani ricordano, di solito, il nome della donna della famiglia (la madre o la nonna) che si impegnava a fare le gubane per i suoi ed i parenti.
Quando tratteremo dei produttori di gubane ne diremo qualcosa. Per ora presentiamo la fotografia di un forno a legna, forse l’ultimo che rimane nel territorio, dove ancora un’arzilla signora di 84 anni continua questa tradizione matriarcale: e infatti ci ha dichiarato che lei ancora per le feste (Natale, Pasqua, matrimoni) fa un certo numero di gubane, ma solo per uso dei parenti, come si usava prima che il prodotto diventasse artigianale e fosse preparato in quantità un po’ più cospicua.
Proseguendo nell’esame delle notizie raccolte o diffuse da altri autori prima di noi, su un’altra informazione ripetuta da più di uno e raccolta dalla leggenda popolare dobbiamo purtroppo mettere molta acqua sul fuoco. Almeno, per ora.
Si è scritto - senza prove - addirittura di un origine medievale della gubana, e non si può aprioristicamente escludere che possa essere vero, visto che queste genti slave sono giunte in Friuli addirittura nell’Alto Medioevo (epoca longobarda - VII-VIII secolo), e che è naturale che con loro abbiano portato le loro tradizioni e non solo la loro lingua, che infatti continuano ad usare. Ma documenti non ne abbiamo trovati; mentre è proprio nel linguaggio slavo delle Valli, nei documenti scritti cui accennavo prima, dei quali importanti sono quelli degli archivi parrocchiali, che in genere risalgono agli inizi del Seicento, che si trovano le prime attestazioni sia del cognome che di un aggettivo riferito alla voce gubana, ed il cognome Gubana, anche con altre varianti, vi compare in più paesi in quell’area che per tutta l’età veneta si indicava come territorio delle Contrade di Antro e Merso: una regione che inizia dopo il Ponte S.Quirino, e che ha il suo centro storico in San Pietro al Natisone, il quale fino a dopo l’annessione del Friuli all’Italia si chiamava per precisi motivi S.Pietro degli Slavi; e che anche in età medievale, quando dominava il patriarca, aveva già una sua situazione particolare: c’era infatti la Gastaldia di Antro, che comprendeva gran parte delle Valli del Natisone, che aveva un’amministrazione distinta da quella di Cividale; e già allora esistevano le Contrade di Antro e Merso, che poi sarebbero state più precisamente riconosciute, dagli inizi del sec.XV, dalla repubblica veneta.
E’ questa la zona dove si trova documentato il cognome Gubana (a S.Pietro c’era anche un mulino Gubana, citato dal Marinelli). Qui la gubana era prodotta da tempo molto antico così come il pane, ed era preparata di solito dalle donne, ma a farla cuocere più d’uno la portava dal panettiere (pankor), perché non tutti avevano il forno: c’era collaborazione fra la gente del paese per questo.
Questa costumanza era viva ancora fin poco dopo la metà di questo secolo, da un tempo non precisabile, ma certo almeno dal secolo XVII, visto che in quest’epoca troviamo documentato anche l’aggettivo gubarniza, che significa “colei che fa gubane”, oltre al cognome Gubana (presentato anche come Gubanza o Gubaniza),come dicevo. Ciò fa supporre - lo sottolineo - che il nome del dolce sia antico - come il prodotto - fra gli slavi di questa zona, dove o è nato o (e allora si
può anche pensare all’età altomedievale) è stato portato, da questa gente, che gli dava questo nome. Ma per il periodo anteriore al Seicento non esiste documentazione: abbiamo soltanto trovato delle affermazioni non surrogate da documenti.
Il dolce era fatto all’inizio con pasta lievitata (quella del pane) e ripieno di castagne, e forse nient’altro, come dicevo prima. E si cucinava nel forno a legna (pec) che si trovava nella cucina (isba), la sola stanza calda della casa, dove nella stagione fredda si raccoglieva tutta la famiglia.
Secondo Valeriano Rossitti Amelio Tagliaferri avrebbe dovuto intorno agli anni ottanta pubblicare un documento del 1576 in cui si parla della gubana (9); ma non ho trovato la pubblicazione dove lo studioso cividalese avrebbe reso noto il documento, per quante ricerche io abbia fatto proprio nella Biblioteca del Museo Archeologico di Cividale, del quale il collega Tagliaferri fu per anni attivo direttore e ne diresse anche la rivista “Forum Julii “, dove scriveva o pubblicava per lo più studi su cose locali: ed ho esplorato anche sia nell’archivio della Comunità di Cividale che nei noti manoscritti storici del Guerra e del cividalese Sturolo, nonché nei summari e nelle raccolte di documenti curate, in veste di archivista, dal canonico cividalese Giorgio Modena (o Modana); e i manoscritti di un altro notevole storiografo cividalese, Marco Antonio Nicoletti.
Tornando a Rossitti, egli scrive (p.30 op.cit.): “Pare che la gubana sia stata offerta a Papa Gregorio XII il 26 maggio 1409 in occasione della sua venuta a Cividale per tenervi un Concilio generale”. Ma anche di questa affermazione del Rossitti - non surrogata da alcun riferimento a fonti - non ho trovato riscontro in alcun documento dell’epoca.
Eppure anche una leggenda gemonese riportata nel 1901 sulle “Pagine Friulane” (10) si riferisce a questo stesso avvenimento. Non solo: qualche decennio dopo anche Chino Ermacora (11) riprende l’argomento: “Si conosce...la lista delle settantadue vivande servite dal Comune di Cividale in onore del Papa Gregorio XII, nel giorno in cui vi fece l’ingresso solenne per presiedere il Concilio generale (6 giugno 1409)....tra i dolciumi, la gubana;” e aggiunge che secondo la leggenda i Cividalesi, “volendo esternare a sua Santità l’entusiasmo di cui erano in preda, vuotarono tutte le madie per apprestare un dolce degno del numeroso corteggio di prelati e cavalieri entrati in città. Ne riuscì pertanto un’accozzaglia di ingredienti, dall’impasto dei quali i cuochi sudati e affaccendati trassero la gubana famosa.”.
Ma neanche il nostro bravo scrittore, che tanto e così amorevolmente ha narrato della tradizione friulana, indica, di così ghiotta notizia, alcuna fonte.
Resta però il fatto che anche la leggenda cui accennavo prima, riportata nel dialetto di Gemona dalle “Pagine Friulane”, si riferisce a tale visita del Papa a Cividale: in essa si racconta che il papa, vista la gubana, abbia commentato: “- Ah puars mai no! Fritae!?”, riferendosi quindi ai tanti ingredienti, dei quali fa cenno anche la tradizione cui alludeva Chino Ermacora e che è stata riferita da Rossitti.
Peccato, che per dare una validità storica precisa a queste informazioni allo stato attuale delle cose non si riesca a rintracciare alcuna prova documentale; e che le date indicate da Rossitti e da Ermacora non coincidano (e che sotto quelle date nei documenti relativi alla vita civile di Cividale a noi non sia risultato alcun cenno neppure sul Concilio) (12).
Per noi dunque questo fatto storico, così interessante, rimane per lo meno misterioso, anche se sospettiamo che un tanto non possa derivare da una fantasia trasmessa così a lungo e raccolta da persone così interessate all’argomento, anche se così purtroppo imprecise nel trattarne.
NOTE
(1) Carlo Tagliavini. Le origini delle lingue neolatine. Bologna, Patron, 1972 (VI ed.), p. 19
(2) Gaetano Perusini. Uova e pani di Pasqua in Friuli. Extrait des Archives suisses del Traditions populaires. Bale - Tome 53 (1957), Chaiers 2/3. Societè suisse del traditions populaires, Imprimerie G. Krebs imprimeur - editeur S. A., Bale 1957, pag. 146
(3) Andreina Nicoloso Ciceri. Tradizioni popolari in Friuli. Chiandetti editore, 1982. 2 voll., vol.II, cap. Feste della Rinascita, par. 5, p. 783.
(4) I ed.1973, II,1993 (dalla quale citiamo)
(5) Io cito dall’VIII edizione, Milano, F. Angeli, 1984 - p. 186, passim
(6) P. Merkù, I cognomi e soprannomi di Clastra e Grobbia, in “San Leonardo. Cultura, storia, tradizioni popolari”, relazioni al convegno del 30 novembre 1996 a S.Leonardo. Centro Friulano di Studi ”I. Nievo”, Udine, 1996, pag. 48
(7) Olinto Marinelli, Guida delle Prealpi Giulie, Rist. ed. Atesa, Bologna, 1977 - Prima ed. 1912, Cividale, in 2 voll.) II vol., p. 677.
(8) Marinelli, op. cit. a n. 7, p. 626
(9)v. Prodotti friulani tipici. La gubana di Cividale e delle Valli del Natisone. A cura del Comitato Iniziative Agricole, 1984. Pordenone, GEAP - p. 18
(10) XIV, a. 1901, pp. 46-47
(11) Vino all’ombra, Udine, tip. Chiesa, 1935, cap. Cividale, pag. 201.
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Avverto in questa nota che - mentre non ho ritenuto di citare coi rispettivi titoli i manoscritti di Guerra, Sturolo e Modena, molto noti a chi si occupa di studi cividalesi, dai quali non ho ricavato purtroppo alcun dato positivo - per le notizie storiche riferite in questo capitolo ho tenuto presente (insieme all’altrettanto utile Guida, già citata, del tarcentino Marinelli) il libro di Carlo Podrecca. Slavia italiana. Cividale, 1884 (che ho potuto consultare nell’edizione bilingue (italiano e sloveno) curata nel 1977 dalla Editoriale Stampa Triestina, Trieste, tip. Del Bianco), al quale mi riferirò puntualmente in alcuni luoghi del cap. 2.
2. LA GUBANA: PATRIA D’ORIGINE, NOME E CARATTERISTICHE
2.1. La patria
La gubana è oggi ormai nota volgarmente come un dolce, anzi come il dolce tipico e quasi emblematico delle Valli del Natisone, che nell’epoca del Patriarcato hanno avuto come capitale ufficiale Cividale, sede del mercato e del potere politico, e pertanto il suo territorio attualmente comprende in pratica anche Cividale.
Ma la zona storica d’origine della gubana, tipico dolce della Slavia friulana (Benecija), non comprende Cividale, dove pure esiste una tradizione gastronomica connessa ad un dolce che oggi, e da tempo, viene chiamato gubana, ma che è diverso dal dolce tipico della zona slava (o meglio, slavo-friulana) del Natisonese, la quale comprende le “ville” delle “Contrade di Antro e Merso”, cioè il territorio che per circa quattro secoli fu gestito, per concessione e delega della Repubblica di San Marco, dalle Banche di Antro e Merso: un’area che inizia dal Ponte S.Quirino e abbraccia, con S.Pietro al Natisone, le località disseminate sui monti sovrastanti, dove dall’alto medioevo (secoli VII-VIII circa) vivono popolazioni di origine slava che parlano ancora il loro tipico particolare linguaggio, e che quando sono giunte in zona hanno certamente portato con loro i loro costumi particolari dei quali restano nella loro vita ancora delle tracce da quei secoli lontani: pertanto non si può escludere che anche la gubana faccia parte di un retaggio che essi hanno portato qui dall’ oriente europeo, così come la loro religione (pagana), che in seguito hanno abbandonato per abbracciare quella cristiana, ma della quale ancora restano ricordi nelle loro tradizioni popolari (per esempio nell’iconografia, come si nota in certi affreschi anonimi su qualche parete di antiche - ormai molto rare - abitazioni).
Per lo stesso motivo, e tenuto conto di queste tradizioni che essi hanno conservato anche dopo essersi stanziati in queste Valli, dove vivono da più di un millennio, e sono pertanto “locali” (e forse più di tanti altri) non meno che i friulani, possiamo sostenere che anche il nome del dolce sia in questa misura locale, così come il dolce che ne porta il nome e che - con le caratteristiche più antiche che si ricordano ancora, e che si conservano nella preparazione della gubana tipica, artigianale, così come si continua a confezionare qui, e che non è paragonabile nè confondibile con altri dolci simili, ma non uguali, come indica del resto chiaramente il fatto che sono chiamati con un nome diverso da quello che esso ha nel dialetto slavo di questa zona (gubanca), del quale è esclusivo. Oggi il territorio che fu delle Contrade di Antro e Merso è rappresentato dalle frazioni e dai borghi di questi comuni: S.Pietro al Natisone (capitale della Comunità Montana delle Valli), e (in ordine alfabetico) Drenchia, Grimacco, S.Leonardo, Prepotto, Pulfero, Savogna, Stregna.
E’, all’incirca, il territorio dove si parla ancora l’antico linguaggio slavo che è sloveno, ma differisce di molto da quello parlato dalla popolazione della Slovenia, che ha avuto tutta un’altra storia e pertanto non a caso per la gente di qui non è facilmente comprensibile.
Riproduco nella pagina seguente la cartina stampata più di recente che si riferisce a questa antica realtà storica (1), facendo però presente che la delimitazione dell’area riconosciuta come territorio d’origine della gubana delle
Valli dal Consorzio che ne tutela oggi il marchio e ne cura la promozione è più vasta di quella storica, essendo stata un po’ allargata in base a considerazioni obbiettive relative all’attuale zona di effettiva produzione della tipica gubana artigianale delle Valli, e comprende anche Cividale; inoltre si estende a Prepotto, dove opera una delle ditte consorziate, come vedremo nel cap. III.
Ma tornando alla nostra area storica, cioè a quella delle Contrade di Antro e Merso, è il caso di ricordare che essa ha avuto nei secoli una storia particolare.
Le “ville” delle Valli del Natisone nel periodo medievale risultano in buona parte citate come soggette quali beni feudali a signori vari, per lo più locali, dipendenti dal Patriarca, anche se già allora avevano per taluni aspetti una loro vita separata dal resto del Cividalese; ma è poco dopo l’avvento della repubblica di Venezia (1420-21) che esse ottengono istituzionalmente di gestirsi separatamente da Cividale e dal resto della “Patria del Friuli”.
Nasce così la comunità delle Convalli di Antro e Merso, che dura fino alla fine della Repubblica (1797), circa quattro secoli: essa si amministra per conto suo, ed ottiene da San Marco particolari privilegi ed immunità, ripetutamente confermati nelle determinazioni della Repubblica, nelle quali troviamo più volte ribadita la “separazione” di questo territorio dal resto della “Patria” in documenti noti dei quali ha ampiamente riferito trattando della Slavia italiana Carlo Podrecca, esso pure cittadino di questa Slavia, in un suo ottimo studio (2).
Della gestione - e dell’esistenza - particolare - “separata”, cioè autonoma - di questa zona ci sono ancora nel territorio diverse testimonianze, fra le quali orgogliosamente ricordate e custodite quelle delle “lastre” dove si radunavano le Banche di Antro e di Merso, a Biacis e poi a Tarcetta quella di Antro ed a Merso di Sopra l’altra, mentre l’Arengo generale si radunava a S.Pietro al Natisone presso l’antica chiesetta presso il fiume, citata nei documenti antichi come “Ecclesia
S.Quirini de Algida” dedicata a S. Quirino, che si trova al principio del paese, scrive Marinelli, “nelle vicinanze del mulino Gubana” (3), su una parete della quale questa iscrizione indica l’anno della sua costruzione: “Anno Domi(ni) 1493 Ma(ister) Marti(n) Piri(ch ?); è interessante notare che i caratteri usati in questa iscrizione sono simili a quelli delle iscrizioni che si trovano nelle chiese di S.Giovanni d’Antro,
di Brischis e di Merso di Sotto, e coevi ad essi. Sulla chiesetta ci sono molte leggende: secondo una, sarebbe stata fondata sopra un tempio di Diana, e in ogni modo dev’essere stata eretta sopra un’altra ancora più antica (4). Essa, secondo l’antica e universale costumanza slava, era circondata dai tigli, albero sacro per questo popolo, all’ombra dei quali appunto una volta l’anno si teneva l’Assemblea generale (Arengo) delle Banche di Antro e Merso; sorge sul ciglio del Natisone.
Ed è a S.Pietro che si continua a tenere una delle due sagre delle quali parla agl’inizi del secolo il Marinelli, narrando che durante questa festa si mangiavano gubane in gran quantità; e ovviamente per produrle si attivavano le donne del paese; poi per cuocerle chi non aveva forno ricorreva ad un forno messo a disposizione da parenti o da conoscenti: da S.Pietro per esempio ci consta che i Dorbolò, oggi produttori artigianali di gubana, fino agli anni sessanta andavano a portare a cuocere le gubane, preparate dalla madre signora Antonia Onesti, nel forno di un familiare che si trovava nella antica località di Tiglio, poco distante da S.Pietro.
E possedere un forno per il pane doveva essere in questi paesi una cosa importante quasi come avere in paese una chiesa: tanto che c’è persino una leggenda che narra di una regina, la quale in occasione di un assedio si era rifugiata nella grotta di San Giovanni d’Antro, e voleva far pane ma non aveva farina, e con uno stratagemma riuscì a far desistere dall’assedio i nemici sacrificando l’ultima misura di grano, gettata ai nemici per far capire che avrebbe resistito all’assedio ancora tanti anni quanti erano i chicchi gettati. Nella grotta restano - a spiegare l’origine della leggenda - i resti di un forno da pane e di un mortaio scavato nel masso per triturare il grano; e la corrobora il nome che qualche storico le dà : “Fortilizio degli Slavi”.
Mentre la chiesetta vicina è del 1477, della grotta si hanno testimonianze storiche almeno dal Cinquecento, quando ne scrive Iacopo Valvason di Maniago.
Per noi, è singolare e suggestivo il motivo del forno da pane e del pane riferito a questa leggendaria e non identificata regina, che è un po’ un’immagine emblematica delle donne di questa gente slava, che tradizionalmente preparavano il pane per la loro gente; pane dal quale ha avuto, non si sa quanto anticamente, origine la gubana, che insieme al pane è da molto divenuto un motivo dell’immaginario collettivo, tanto è vero che questo dolce è considerato di buon augurio, e come tale si offre per le nozze e nelle feste più importanti, che sono normalmente connesse a momenti della vita religiosa.
E appunto l’organizzazione - o almeno la documentazione più precisa (anche se nel sec. XII c’è una bolla di Celestino V dove sono citati diversi paesi delle Valli) - della vita religiosa si conosce abbastanza a partire dal 1456 (quando viene istituita la parrocchia di S.Leonardo), ma l’amministrazione ecclesiastica risulta gestita in modo più articolato da quando nasce la parrocchia di S.Pietro al Natisone (sec. XVII). La gestione della vita religiosa si appoggia a diverse chiese, alcune delle quali di ascendenza molto antica, anche medievale, intorno alle quali si concentra spesso anche la vita sociale della popolazione, che vi organizza sagre, sotto l’ombra dell’ immancabile albero sacro per gli slavi, il tiglio.
A parte documenti non molto fitti di epoca precedente, anche le testimonianze della vita civile cominciano ad essere abbastanza regolari da quando viene organizzata in modo attento la amministrazione religiosa, cioé dagli inizi del Seicento. E’ da quel tempo che si possono trovare negli archivi - preziosi quelli parrocchiali - notizie riferite alla popolazione, e comincia una documentazione abbastanza fitta di cognomi e nomi e toponimi.
Ed è proprio a quel tempo che si può risalire per trovare documenti che ci interessano per la storia della gubana.
Abbiamo già detto del cognome che Merkù afferma essere documentato a Brischis già nel 1601.
Aggiungiamo alcune citazioni tratte dal registro anagrafico conservato nell‘archivio della parrocchia di San Pietro al Natisone (5) che inizia nel 1612 e arriva oltre il ’20, dove noi abbiamo trovato testimonianze del cognome Gubana (Gubanza, Gubaniza) dal 1612 in poi.
Nella seconda pagina del manoscritto, che riporta dati del 1612, leggiamo:
“ adì 5 marcio”
“Simon Gubaniza di Briscis” (Brischis)
“adì 19 8bris”
“Zuane Gubaniza...et Nesa Gubarniza di Briscis”
in annotazioni di mano del sacerdote Mathias Pirich; mentre sempre nello stesso anno si legge:
“adì 24 8bri”
“ Grigor Gubaniza di Lasiz”,
in una nota firmata dal sacerdote Filippo Strassulino; ma poi, più avanti, nelle note dell’anno dopo (1613) si rilegge:
“adì ultimo zugnio.
.. Nisa (Agnese) Gubarniza di Starfis (?)””
Due brani del 1614 tratti dal registro anagrafico della parrocchia di S.Pietro al Natisone (1612-1622), dove sono citati Grigor Gubaniza di Lasiz e Nesa Gubanoviza di Brischis.
“adì 18 9brii
...Nesa Gobarniza de Starseta “(Tarcetta)
E nel 1615:
“Adi 4.Genaro
...Zuanina filiola di Zuan Gubana di Brischis”:
e nel 1618:
“Adi 7 Agusto
...Margreta Gobarniza di Ribidixio (Rebedischis)”
e
“...adì 13 agosto
...Zuanina Gubanoviza”
e nel 1619:
...”Adì 14 ditto” (si tratta del mese citato in precedenza, novembre)
“comadre Zuanina Gubaniza di Brischis”;
“Adì 9 Xbri 1619”
“Simon Gubana di Brischis”
Infine il 6/3/1621 troviamo a Lasiz l’appellativo “Gubanza”; (un soprannome?); infine in un altro passo c’è la variante “Gubancarza”.
Questa discreta varietà di termini in sicuro rapporto con il termine locale gubanca prova la vitalità di questo vocabolo che indica il nome del dolce locale nel campo della terminologia riferita a persone in questo territorio: vitalità che rende convincente la tesi che, come il cognome, anche il nome della gubana sia appunto indigeno, così come è indubbio che i cognomi in relazione col nome del prodotto casalingo che qui si usava sono in rapporto col nome del nostro dolce.
Testimonianze così eloquenti non si trovano del resto che in questo territorio. La deduzione è evidente e logica.
Un’annotazione infine circa i caratteri dell’oggetto del nostro discorso, per meglio identificarlo.
Occorre, innanzitutto, precisare che si deve distinguere la gubana di origine popolare, che ha il suo habitat nelle Valli, e, più precisamente, nel territorio montano o pedemontano delle Valli, dove si parla da prima del mille un particolare linguaggio slavo, che gli studiosi identificano con lo sloveno (ma non quello di oggi) e quella di Cividale, che secondo gli studiosi ha una tradizione diversa (e aristocratica), anche se affine a quella popolare: infatti i due tipi di dolce si assomigliano in tutto, meno che per il tipo di pasta con il quale è confezionato: la pasta lievitata è caratteristica della gubana delle Valli, la pasta sfoglia di quella di Cividale.
Ma oggi tutto il territorio del Cividalese, compresa la cittadina longobarda, difende la gubana della Benecija come una testimonianza eccellente di un’antica tradizione della sua zona, perché i confini si sono allargati col tempo, e del resto due ditte che continuano fedelmente la tradizione antica delle Valli si sono trasferite a Cividale: questo non è un falso, perché - e visto che - il principio essenziale è salvo: cioè c’è accordo sul rispetto dell’antica tradizione slava nel confezionare il prodotto (6).NOTE
(1) Atlante toponomastico e ricerca storica. A cura di Paolo Petricig e Natale Zuanella, promosso dal Comune di San Pietro al Natisone. Cooperativa Lipa, Premariacco, 1990
(2) Carlo Podrecca. Slavia italiana. Cividale, Fulvio, 1884.
(3) O. Marinelli, Guida delle Prealpi Giulie, II vol. già cit., pag. 625
(4) V. Marinelli cit., pag. 626
(5) Dal “Lib. 1 Baptizatorum ab Anno 1612-15” ” et Matrimoniorum a 19 a Augusti 1613 ad 8a 9bris 1621”, mscr. presso l’Archivio parrocchiale di San Pietro al Natisone
(6) Riferiamo al riguardo soltanto in nota, dato che come nel resto dei casi la documentazione di supporto è piuttosto imprecisa, fra le numerose informazioni su ricette che l’autore riferisce alla gubana, due notizie che ci sono parse comunque di particolare interesse: 1) una ricetta, tratta da un non meglio identificato “ricettario di Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan Mezzarota Scarampo, Patriarca dal 1439 fino all’anno della morte 1465’, che Rossitti trascrive - affermando che questa ricetta “risale al 1450 circa” - perché gli pare che essa assomigli a quella della gubana; successivamente lo stesso autore aggiunge però che “... il primo documento storico che parla della gubana è del 1456 e sottintende la gubana delle Valli.” (ma non ci spiega perché, e, quel che ci mette in seria perplessità, poco dopo aggiunge però che “Il primo documento invece che parla della gubana di Cividale è del XIX secolo.” (v. op. cit. p. 12) (?!..).
3. LA GUBANA NELLA SECONDA METÀ DEL NOSTRO SECOLO
3.1. La gubana, dolce di famiglia fino alla prima metà del Novecento
Abbiamo già detto che - come ci hanno confermato numerosi informatori appartenenti al suo territorio d’origine e per la quasi totalità ancora in esso residenti - la gubana rimase a lungo un dolce di produzione solo familiare; e ciò fino all’inizio degli anni sessanta di questo secolo.
Tutti ci hanno spiegato che era un dolce che si preparava per nozze, per Natale, ma anche in occasione della sagra del Santo patrono locale; a volte si conservava da Natale a Pasqua per poterlo gustare anche in quest’ultima festività. L’informazione è concorde anche sul fatto che l’uso era in genere limitato alla cerchia familiare (ma di una famiglia intesa in senso patriarcale: cioè la famiglia che le preparava le distribuiva anche alla parentela).
Occorre però precisare che nelle sagre paesane la gubana diventava il dolce di tutto il paese, ed era gustata in pubblico anche da coloro che venivano numerosi da altre zone, anche lontane, a far festa coi locali.
Troviamo infatti documentata la presenza della gubana nel 1912 (1) nella Guida del Marinelli a proposito di due importanti sagre paesane: quella del 29 giugno dedicata a S.Pietro, a S.Pietro al Natisone, della quale è scritto che “attira una gran folla di forestieri, desiderosi di divertirsi e di gustare sul luogo la squisita “gubana” (gubànza), specialità di questi paesi” (op. cit. p. 626) e quella che si svolge, sopra Clodig, in settembre, sul Monte S.Martino, intorno all’antica chiesetta di S.Martino, dove ” si tiene in settembre una delle caratteristiche sagre slave, che, a dispetto dell’altezza e della ripidità del monte, dichiara moltissima gente della nostra Slavia, nonché gli abitanti delle vicine borgate austriache. La gente assiste dapprima alla Messa, eseguisce i suoi canti tradizionali, gravi e veramente sacri, ascolta la predica e dato a Dio ciò ch’è di Dio, si riversa a funzione compita, sui due ripiani disponendosi in circoli. I barili di vino, trasportati lassù con grandi sudori e fatiche da borgate anche molto lontane, diventano i rispettivi centri degli aggruppamenti. I
litri colmi girano regolarmente in cerchio di bocca in bocca, mentre la parte solida del “comfort” è rappresentata dalla gubànza, ghiotta specialità dei paesi Sloveni.”
A parte l’uso per così dire comunitario a livello locale nelle sagre, la gubana rimase dolce di famiglia fino agli anni sessanta del nostro secolo.
La Gubànca diventa... gubana.
Alla metà del sesto decennio di questo secolo il tradizionale tipico dolce della gente slava del Natisone è protagonista di un avvenimento nuovo, che segna una svolta essenziale nella storia di questo prodotto.
Era l’anno 1965, quando, a S.Pietro al Natisone, in occasione della sagra annuale dedicata ai Santi Pietro e Paolo il 29 giugno, l’E.P.T. di Udine provocò ed appoggiò, fra le altre iniziative della Pro Valli del Natisone - scrive il “Messaggero Veneto” - una “gara” fra le migliori gubane che si impastano e si cucinano abbondantemente, in forni privati, nell’intera zona.”
Non sappiamo chi abbia scritto la notizia di cronaca, ma ricordiamo che in quel periodo collaborava con il quotidiano friulano un sensibile ed intelligente scrittore (e buon poeta) appartenente a queste Valli, il compianto Dino Menichini, ed è possibile che la sua penna non sia estranea a questa e ad altre note che trattarono dell’avvenimento nuovo e singolare, che, scrive il giornale già citato, “merita particolare attenzione”. E continua riferendo che la “commissione assaggio”...”presieduta dal Presidente dell’E.P.T. provinciale dr. Barbina e formata da sindaci delle Valli, dal direttore dell’E.P.T., da rappresentanti della stampa e dal dinamico prof. Braides”...”ha avuto un arduo compito, perché erano tutti bravi,” ed il voto” è avvenuto “a scrutinio segreto”.
Da questo articolo apprendiamo che il primo premio fu assegnato alla ditta Eliseo Dorbolò di San Pietro al Natisone; il secondo a quella di Attilio Vogrig di Clodig ed il terzo a Giuditta Teresa di Scrutto.
E il giornalista commenta: “Con questo atto la gubana è entrata ufficialmente nel firmamento delle specialità gastronomiche più significative e più in vista delle Valli del Natisone. Le compete un posto di preminenza fra le specialità dell’ “intero Friuli” ed “una palma di eccezionale valore tra i richiami gastronomici d’Italia.”
Il cronista - anonimo, e purtroppo non è facile dopo tanti anni identificarlo - aveva perfettamente ragione: era l’ingresso ufficiale del dolce casereccio delle Valli nel più vasto mondo artigianale; e la competizione in quest’ambito da allora in poi sarebbe stata affrontata sistematicamente.
Per l’occasione, il quotidiano del Friuli dedicava al dolce delle Valli un altro articolo nel quale sottolineava con un orgoglio tutto patriottico l’importanza di questo concorso titolando “La gubana può insidiare il primato del panettone”: cosa che, a distanza di anni, risulta una predizione confermata, quanto meno in Friuli.
Nello stesso tempo l’articolo informava che “sette ditte si preparano a un lancio sul piano industriale”.
Ma si trattava soltanto di un avvio della produzione a livello artigianale. E queste erano le ditte che si stavano lanciando nell’impresa: “Eliseo Dorbolò di San Pietro al Natisone, Fratelli Cedarmas di Loch di Pulfero, Giuditta Teresa Sittaro di Scrutto, Fratelli Sittaro di San Leonardo, Attilio Vogrig di Clodig, Paolina Martinig di San Leonardo, A. Gardini di Drenchia”.
Era l’inizio di un’età nuova per il simpatico antico dolce della Slavia friulana, che d’ora in poi si sarebbe presentato in lizza sul mercato artigianale, assumendo il nome tradotto in italiano di gubana, che del resto gli era stato affibbiato già in passato, quando era stato necessario scriverne: così nei documenti parrocchiali, scritti già dal Seicento in una lingua fondamentalmente italiana, troviamo, come abbiamo visto, le voci che si riferiscono a questo termine proposte con una grafia italiana che ne riproduce (solo approssimativamente) la pronuncia locale (e la h tipica dei dialetti slavi di questa zona viene resa con g, sia nei cognomi che negli aggettivi, mentre troviamo la z al posto della c slovena), ed anche in altri casi - non molti per la verità - nei quali prima del nostro secolo il nostro dolce è stato citato esso è indicato col nome italianizzato.
Ricordo a questo punto per dovere di cronaca queste citazioni che si trovano prima del nostro secolo: nel secolo scorso, si trova nominata la “gubana” in una poesia del 1836 di Pietro del Torre di Cividale il quale, inviando una poesia a Mons.
Cristoforo Polonia, insieme ad una gubana, scrive che “corre fama...che un re vi fu dei Goti l’inventore “ (ma è una leggenda, o uno scherzo del poeta stesso: nulla lo prova); ed in precedenza, in una poesia goriziana del 14 marzo 1714 che parla del tumulto dei Tulminotti che aveva sconvolto la vita dei goriziani, un anonimo poeta friulano consola i compatrioti elencando le golosità che avrebbero potuto gustare nelle imminenti festività pasquali e fra queste cita le “gubanis cu’l savor” (definizione un po’ impropria, perché i “savors” in friulano sono erbe aromatiche che si usano in piatti salati, e non ci constano “gubane” così confezionate; caso mai, pani salati con i cicciloli, che sono un’usanza pasquale: perciò può darsi che l’anonimo poeta vernacolo friulano non avesse le idee chiare sul tipo di prodotto del quale scrive ed è probabile che di conseguenza usi anche il termine in modo improprio).
Ma poco dopo Carlo Goldoni, quando descrive il mangiare signorile dei goriziani, e lo fa con molta precisione anche lessicale, non cita per nulla la gubana, che, se ci fosse stata fra i dolci di casa Lantieri quando nel 1726 egli ne fu ospite, non avrebbe potuto essere dimenticata. E questa è una prova negativa piuttosto pesante.
In ogni modo gli autori che oggi pretendono di spacciare per gubana il presnitz o la putizza lo fanno piuttosto goffamente, come ho già fatto osservare; e infatti i più diligenti non trascurano di usare delle scappatoie per giustificare l’uso di un nome che evidentemente sentono improprio per il dolce fatto a Gorizia, l’uso del quale fra l’altro sembrerebbe limitato alle sole feste pasquali: per esempio il triestino Babudri, scrivendo di tradizioni “istriane”, parla di una ricetta che ha trovato in una farmacia istriana, datata 1795, riferita alla “gubana alla goriziana”. In ogni modo non è il caso di perderci in altre citazioni non probanti a favore di Gorizia, perché il dato di fatto che esclude paragoni con i dolci goriziani eventualmente simili al dolce del Natisone, che emerge dalle ricette riferite per Gorizia da vari autori, è che tali dolci sono diversi proprio perché fatti con sistemi e in base a ricette diverse da quella tradizionale e tipica solo della nostra gubana.